di Monica Luongo, pubblicato su Leggendaria n.120
Dei 14 punti fissati dalla Conferenza di Pechino 1995, il quarto prevedeva l’impegno dei governi a contrastare la violenza contro le donne. Grazie ai movimenti delle donne, il tema è ormai entrato nell’agenda delle priorità delle agenzie internazionali, tenendo conto delle differenze tra aree geografiche, ambiti e contesti e cercando di coinvolgere anche gli uomini. I risultati però sono ancora largamente insoddisfacenti.
Non vi è dubbio che se oggi il tema della violenza contro le donne è nelle agende internazionali il merito va ai movimenti femministi che hanno animato la scena mondiale dai primi anni Settanta. Perché le politiche e le strategie messe in atto da governi di ogni paese e dalle agenzie internazionali e sovranazionali seguono policies e obiettivi che hanno richiesto lunghi anni di negoziazioni affinché divenissero prioritari
Senza voler ripercorrere passo dopo passo la storia dei movimenti e dei femminismi transnazionali, basterà ricordare che la Conferenza Mondiale delle Donne di Pechino del 1995 ha segnato uno spartiacque nella storia dei diritti umani attraverso l’affermazione dei principi di empowerment e mainstreaming e più in generale della parità tra uomini e donne. Non soltanto, l’agenda di Pechino portò a casa la lista delle priorità all’interno delle quali ci si sarebbe mossi negli anni a venire: 14 punti che andavano dall’educazione al diritto al lavoro; al quarto posto compariva la lotta alla violenza contro le donne.
Da quel momento in poi le specifiche azioni contro la violenza si sono affinate e moltiplicate, specializzate e differenziate per aree geografiche, ambiti e contesti. Più in generale è possibile affermare che le tematiche gender sono una cross-cutting issue, ovvero un tema trasversale che deve attraversare le varie e diverse politiche adottate in generale dai governi e in particolare, ad esempio, dai paesi in via di sviluppo.
Quanto all’importanza dei movimenti delle donne, è oggi impossibile pianificare e discutere tematiche e strategie di genere (risoluzioni, piani di sviluppo, distribuzione dei fondi) senza che ai tavoli della pianificazione siano presenti rappresentanti di governo, donatori e istituzioni non governative, in conformità alle risoluzioni di Nazioni Unite, Conferenze di Parigi e Accra sull’armonizzazione degli aiuti, e nel nostro caso risoluzioni della Unione Europea. Una precisazione a mio parere importante perché troppo spesso la rabbia e la frustrazione, il senso di impotenza che prende tutte noi – me compresa – di fronte al perpetuarsi della violenza contro le donne e le bambine porta a dimenticare o mettere in secondo piano ciò che si fa per combattere un fenomeno esteso e complesso come questo. Si è cominciato infatti dai numeri – ovvero dall’uso in statistica dei dati disaggregati per genere su indicazione iniziale della Banca Mondiale – per poter comprendere la portata del fenomeno della violenza contro le donne; dati che hanno portato a porre l’accento sui differenti contesti in cui la violenza si compie, identificandone gli autori, e investigando le dinamiche di quella che viene definita da psicologi e operatori sociali la “spirale della violenza”. Poi ci sono state le azioni “di protezione” per le donne vittime; capendo che ciò non era sufficiente si è cominciato a lavorare con approcci differenti: la formazione del personale, il fondamentale training alle forze di polizia che coadiuva il rafforzamento delle fasi di denuncia della violenza. Ancora, le più recenti risoluzioni delle Nazioni Unite in materia trattano il ruolo delle donne nei processi di pace, nella formazione degli operatori in aree di conflitto, della violenza perpetrata dagli stessi militari delle forze di pace sulle donne dei paesi che dovrebbero proteggere e sulle stesse colleghe.
Con i contesti cambiano anche le azioni e le decisioni di governo: sta crescendo il numero dei paesi africani che denuncia come illegali le pratiche delle mutilazioni genitali femminili, o il fenomeno diffuso delle spose bambine; il Bangladesh punisce severamente chi sfregia le donne con l’acido; in India chi costringe le donne ad abortire se incinte di figlie femmine. In Kenya – con una decisione che è stata contestata da molti – il governo ha deciso di legalizzare la poligamia invece che abolirla, proprio perché il Parlamento ha ritenuto che le donne che vivono in poligamia non erano tutelate abbastanza sia nella loro persona fisica che in quella giuridica.
Non si tratta, come è comprensibile, di obiettivi facili da raggiungere, partendo dalle decisioni prese “dall’alto”, che richiedono lunghe trattative e adattamenti di testi oltre alla decisione sui fondi da stanziare per i diversi programmi o azioni, alle negoziazioni a livello locale, in cui ci si scontra sul terreno con rappresenti delle istituzioni (molto spesso anche donne) retrogradi e integralisti: bisogna fare i conti con gruppi etnici e tradizioni locali – come in Pakistan e Afghanistan – in cui le jirga (i tribunali informali di saggi e anziani) si sostituiscono quasi interamente al potere giuridico costituito. E infine con le stesse donne, in paesi dove per un insieme di fattori socio-culturali, a volte sono proprio loro le custodi più strenue delle tradizioni di sopraffazione del sesso femminile.
Quello che in ogni caso mi sembra abbia segnato una ulteriore svolta negli ultimi anni nelle politiche contro la violenza sulle donne, è stato il riconoscimento della necessaria presenza degli uomini e delle associazioni maschili nelle azioni e nei programmi. Su Leggendaria se ne è parlato più volte, ma anche a livello internazionale i più grossi fondi per questo genere di azioni positive non vengono distribuiti alle organizzazioni che ne fanno richiesta se nelle singole proposte di progetto non è chiaramente esplicitata la presenza di organizzazioni di uomini contro la violenza. È cruciale il riconoscimento di questa posizione, da parte delle Nazioni Unite soprattutto, perché sta a significare che “ufficialmente” il mondo non può più pensare che la violenza contro le donne deve essere una battaglia combattuta solo dalle stesse donne.
È improbabile che io riesca a vedere la fine della piaga del femminicidio nel tempo della mia vita e, dopo aver seguito differenti progetti internazionali a protezione salvaguardia ed empowerment delle donne, confesso di avere spesso un senso di smarrimento e di sconfitta perché questo tipo di azioni non porta a risultati concreti e tangibili (se non il loco e in scala ridottissima). Allo stesso tempo non devo dimenticare che la strada che sto percorrendo è stata pavimentata dagli sforzi e dalle battaglie delle donne che sono venute prima di me, senza i cui successi io mi ritroverei ancora più zoppicante nei miei sforzi di donna impegnata su questo terreno.